Il delitto di maltrattamenti richiede il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condIzione di soggezione psicologica e di sofferenza: sono quindi irrilevanti (salvo che gli stessi configurino apposite aggravanti) i motivi dell’agire dell’imputato.
Episodi di di autolesionismo possono concorrere al reato di maltrattamenti in famiglia nella misura in cui le stesse cagionano alla vittima uno stato di sofferenza psicofisica, poiché costretta ad assistere a tali deliberati atti di gratuita violenza all’interno delle mura domestiche.
L'imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda, con la conseguenza che il dolo generico è compatibile con il vizio parziale di mente.
Non è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2 in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte.
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 6 dicembre 2018 – 12 febbraio 2019, n. 6803
Presidente Paoloni – Relatore Calvanese
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Genova confermava la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Genova che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato B.E. per i reati di cui all’art. 572 c.p. (capo A) e art. 582 c.p. (capo B).
In particolare all’imputato era stato contestato di aver maltrattato la madre, sottoponendola a condotte lesive della sua integrità fisica e morale, percuotendola con calci e pugni e da ultimo cagionandole la frattura delle ossa nasali.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione, con travisamento della prova, in relazione all’art. 572 c.p..
La Corte di appello avrebbe travisato il contenuto delle dichiarazioni della persona offesa, che aveva descritto le condotte violente, poste in essere dal figlio, non dirette contro di lei, in quanto non aveva intenzione di riferirla, e che aveva riferito anche di atteggiamenti di autolesionismo ad opera del medesimo.
La Corte di appello avrebbe omesso inoltre di considerare quanto riferito dagli agenti di p.s., che avevano soltanto evidenziato litigi derivanti da disturbi alimentari dell’imputato, ma non comportamenti volti ad imprimere sofferenze fisiche morali o fisiche alla madre.
La sentenza è frutto dell’erronea applicazione dell’art. 572 c.p..
La Corte di appello nulla rileva e dice in ordine agli elementi oggettivi e soggettivi per addivenire ad una condanna del ricorrente per il reato di maltrattamenti in famiglia.
La condotta era il frutto soltanto di litigi e non diretta a vessare la madre.
2.2. Violazione di legge, per l’omessa dichiarazione di estinzione del reato sub B) per remissione della querela.
Nel caso di accoglimento del primo motivo, la sentenza deve essere anche annullata per il reato di lesioni, in quanto vi è in atti la remissione della querela.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato nei limiti seguenti.
2. Deve ritenersi inammissibile il ricorso per il capo concernente il reato di cui all’art. 572 c.p..
Il ricorrente, articolando censure che si rivelano aspecifiche rispetto al ragionamento giustificativo della sentenza impugnata, si limita a riproporre questioni già esaminate dai giudici di merito, con motivazione scevra da vizi rilevanti in questa sede.
Va evidenziato che sin dal primo grado le allegate dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di giudizio abbreviato erano state valutate come un tentativo di quest’ultima, madre del ricorrente, di ridimensionare il quadro probatorio, risultante dalla denuncia da lei presentata e dalle dichiarazioni rese alla p.g., richiamando sostanzialmente le considerazioni formulare dal perito.
La persona offesa aveva invece dichiarato, nell’immediatezza dell’ultimo episodio di violenze che l’avevano costretta a recarsi in ospedale per una frattura, in contesto in cui non vi erano forme di contaminazione o di influenza esterna, di aver subito per lungo tempo le aggressioni fisiche del ricorrente, sempre di maggiore intensità, il quale aveva attuato anche comportamenti autolesionistici. La situazione era divenuta per lei insostenibile anche perché temeva di poter essere vittima di azioni ancor più gravi.
Con l’appello l’imputato aveva dedotto che andava considerato che nelle ultime dichiarazioni la persona offesa aveva specificato la direzione della azione violenta, ancorché ne avesse subito le conseguenze: si trattava quindi, secondo la difesa, di forme di esplosione di rabbia, manifestazione del disturbo della personalità dell’imputato, in coincidenza delle quali anche quest’ultimo si procurava lesioni.
La Corte di appello, lungi dal travisare la prova dichiarativa, ha confermato la impostazione seguita del primo giudice, come si evince dalla stessa motivazione della sentenza impugnata, ripercorrendo le iniziali dichiarazioni della persona offesa, che restituivano un quadro di plurime condotte violente ed oppressive in danno di quest’ultima, scatenate anche da banali discussioni, comportante un regime di vita per la donna di sofferenze fisiche e morali.
Né risulta decisiva la scena descritta dagli agenti, allorquando erano intervenuti presso l’abitazione della persona offesa su richiesta di quest’ultima: già in primo grado, nel ricostruire i fatti, si era evidenziato che l’annotazione restituiva una scena "apparentemente" tranquilla di litigio tra i due familiari in cui la donna aveva riportato lesioni personali, alla quale era seguito a distanza di qualche giorno un nuovo episodio che l’aveva costretta a rivolgersi all’ospedale per curare un’ulteriore lesione, fino a che alla fine dello stesso mese la donna si era risolta a denunciare le aggressioni patite ad opera del ricorrente, determinata dal timore per la propria incolumità.
Quanto agli episodi di autolesionismo, correttamente la Corte di appello ha ritenuto che anche tali condotte venissero a realizzare, congiuntamente alle plurime manifestazioni eteroaggressive dirette contro la persona offesa, il reato contestato, nella misura in cui le stesse cagionavano nella madre del ricorrente uno stato di sofferenza psicofisica, poiché costretta ad assistere a tali deliberati atti di gratuita violenza all’interno delle mura domestiche.
In relazione alla finalità delle condotte, è sufficiente ribadire che il delitto di maltrattamenti richiede il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (tra tante, Sez. 6, n. 15680 del 28/03/2012, F., Rv. 252586). Pertanto sono irrilevanti (salvo che gli stessi configurino apposite aggravanti) i motivi dell’agire dell’imputato.
La Corte di appello ha anche dato conto della incidenza del vizio parziale di mente, riconosciuto in primo grado: le stesse dichiarazioni rese dal ricorrente in sede di interrogatorio dimostravano che egli, nonostante la malattia, avesse conservato, seppur in misura ridotta, la capacità di rendersi conto dei propri comportamenti e del loro disvalore, pur non riuscendo a controllare adeguatamente i propri impulsi.
Va rammentato che l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda, con la conseguenza che il dolo generico è compatibile con il vizio parziale di mente (tra tante, Sez. 6, n. 4292 del 13/05/2014, dep. 2015, Corti, Rv. 262151).
3. Fondato è invece il ricorso con riferimento al reato di lesioni.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, non è configurabile la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2 in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte (tra le molte, Sez. 6, n. 5738 del 19/01/2016, R, Rv. 266122; Sez. 6, n. 23827 del 07/05/2013, A. Rv. 256312).
Tenuto conto della contestazione dei fatti in ordine alle modalità e al tempo di loro commissione, deve escludersi la procedibilità d’ufficio, ai sensi dell’art. 582 c.p., comma 2.
Ne consegue che, stante la remissione della querela, il reato deve ritenersi estinto.
4. Alla luce delle considerazioni, sopra esposte, si deve, pertanto, annullare la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui al capo B).
La Corte di cassazione può procedere direttamente alla eliminazione della relativa pena, applicata a titolo di aumento ex art. 81 c.p..
Invero, la pena finale di 8 mesi di reclusione era stata così calcolata: la pena per il reato di cui al capo A) di mesi 10 e giorni 20 di reclusione (considerate le diminuzioni per gli artt. 89 e 62-bis c.p.) era stata aumentata ad anni 1 di reclusione per la continuazione con il reato sub B), e quindi diminuita per il rito.
Pertanto la pena residua, per effetto dell’annullamento, va determinata in mesi 7 e giorni 3 di reclusione.
Non risultando la presenza di una diversa pattuizione tra le parti, ai sensi dell’art. 340 c.p.p., comma 4, le spese del procedimento relativamente al reato di cui al capo B) devono porsi a carico del querelato.
Per il resto il ricorso va dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di lesioni cui al capo B), esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2, perché estinto per remissione di querela e, per l’effetto, elimina la relativa pena e determina la pena per la residua imputazione in mesi sette e giorni tre di reclusione.
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al reato per il quale è stata rimessa la querela.