Attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito.
Corte Costituzionale
SENTENZA N. 34
ANNO 1973
Prof Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 226, ultimo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 giugno 1971 dal tribunale di Bolzano nel procedimento penale a carico di Marazzani Ignazio e Innerkofler Luigia, iscritta al n. 272 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 240 del 22 settembre 1971.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 21 marzo 1973 il Giudice relatore Giovanni Battista Benedetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Con sentenza 14 novembre 1969 del giudice istruttore presso il tribunale di Bolzano MI e IL venivano rinviati a giudizio per rispondere del delitto previsto e punito dall'art. 3, nn. 1-4 e 7 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, per avere organizzato, esercitato e diretto una casa di prostituzione in un albergo di Bolzano.
Nell'udienza dibattimentale del 15 giugno 1971 il tribunale, dopo aver rilevato che uno dei principali indizi a carico degli imputati era stato acquisito nel corso delle indagini preliminari mediante l'intercettazione - regolarmente autorizzata dalla procura della Repubblica - dell'apparecchio telefonico dell'albergo ove si sospettava che avvenissero gli incontri organizzati dai prevenuti, pronunciava ordinanza con la quale, in accoglimento della richiesta dei difensori, sollevava la questione di legittimità costituzionale dell'art. 226, ultimo comma, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 15 e 24 della Costituzione. Ad avviso del giudice a quo l'intercettazione telefonica di comunicazioni é un mezzo di indagine lesivo della facoltà, ora riconosciuta anche a chi sia soltanto indiziato o sospettato di reato, di non rispondere agli interrogatori degli inquirenti (art. 78 del codice di rito nel testo sostituito con l'art. 1 della legge 5 dicembre 1969, n. 932). Mediante l'intercettazione vengono ricavate dalla viva voce dell'indiziato ammissioni o argomenti di prova che possono essere poi utilizzati contro lo stesso. E questo é proprio ciò che la novella del 1969 e le più recenti disposizioni di procedura hanno voluto evitare addossando, invece, all'accusa l'onere di raccogliere le prove sufficienti a carico dei sospettati o indiziati di reato.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte le parti private non si sono costituite. Ha spiegato intervento, invece, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
Nelle proprie deduzioni, depositate in cancelleria il 3 agosto 1971, l'Avvocatura afferma che la questione proposta non é fondata. Osserva in proposito che la polizia giudiziaria ha il dovere, anche di propria iniziativa, di prendere notizia e di scoprire la commissione di reati nei casi in cui ne abbia sospetto (art. 219 c.p.p.). Ora é appunto a questo dovere che va collegata la facoltà riconosciuta all'ufficiale di polizia giudiziaria, nella fase degli atti preliminari all'istruzione, di intercettare comunicazioni telefoniche dopo avere ottenuto l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria (art. 226, u.c., c.p.p.).
La polizia procede ad intercettazione telefonica quando ha il sospetto che un reato sia stato commesso, ma, molto frequentemente, non conosce chi ne sia l'autore. In ipotesi del genere - e questo é il caso portato a giudizio del tribunale di Bolzano nel quale si aveva sospetto che in un albergo si esercitasse il meretricio, ma si ignorava quali fossero le persone che ne favorivano l'esercizio - non si vede come potrebbe pretendersi che vi sia avviso di procedimento. Il vero é che in tali casi si cercano le prove della sussistenza di un reato e si acquisiscono dichiarazioni compromettenti di soggetti, che, a quel momento, potevano anche non essere indiziati di reità (almeno con una certa sicurezza). Se ciò non fosse corretto, si dovrebbe dire che ogni dichiarazione proveniente da soggetto che, al momento in cui l'ha fatta, non era ancora indiziato di reato e, quindi, non aveva ancora ricevuto avviso di procedimento a suo carico, dovrebbe essere sottratta alle prove del processo penale. Il che condurrebbe a conclusione veramente aberrante nei casi in cui il telefono costituisce strumento di commissione del reato come ad esempio nei casi di offese, molestie e disturbo arrecate col mezzo del telefono.
Conclude pertanto l'Avvocatura osservando che se si facesse divieto alla polizia giudiziaria di procedere, su autorizzazione motivata dell'autorità giudiziaria, ad intercettazioni telefoniche molti reati non potrebbero essere scoperti e molti reati in via di commissione non potrebbero, per di più, essere impediti.
L'Avvocatura ha depositato anche una memoria nella quale insiste nelle conclusioni già prese.
Considerato in diritto
1. - Il tribunale di Bolzano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 226, ultimo comma, del codice di procedura penale il quale riconosce agli ufficiali di polizia giudiziaria, nella fase degli atti preliminari dell'istruttoria, la facoltà di intercettare o impedire comunicazioni telefoniche o prenderne cognizione previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria che la concede con decreto motivato.
Questa disposizione, secondo il giudice a quo, contrasterebbe con gli artt. 15 e 24 della Costituzione: l'intercettazione telefonica di conversazione di indiziati o sospettati di reato rappresenterebbe un mezzo di indagine lesivo della facoltà, ora riconosciuta anche a chi sia soltanto indiziato o sospettato, di non rispondere agli interrogatori degli inquirenti (art. 78 c.p.p nel testo modificato con la legge 5 dicembre 1969, numero 932).
2. - L'eccezione di incostituzionalità in riferimento all'articolo 15 della Costituzione non é fondata. Questa norma non si limita a proclamare l'inviolabilità della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (comma primo), ma enuncia anche espressamente che "la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge" (comma secondo). Nel precetto costituzionale trovano perciò protezione due distinti interessi; quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale.
Nel testo dell'art. 15 figurano puntualmente indicate le condizioni necessarie a legittimare dette limitazioni e la disposizione contenuta nell'art. 226, ultimo comma, del codice di procedura penale é stata modificata dal legislatore (legge 18 giugno 1955, n. 517) proprio per armonizzarla al disposto costituzionale. A termini di detto articolo gli ufficiali di polizia giudiziaria, nel corso degli atti investigativi preliminari all'istruttoria, possono procedere ad intercettazioni telefoniche non di propria iniziativa ma solo a seguito di apposita autorizzazione dell'autorità giudiziaria che la rilascia con decreto motivato.
Il riconoscimento di detta facoltà si ricollega evidentemente a quel dovere di prevenzione e scoperta degli illeciti penali che é compito istituzionale degli organi di polizia giudiziaria (articolo 219 c.p.p.).
Nel nostro sistema quindi la compressione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, che l'intercettazione innegabilmente comporta, non resta affidata all'organo di polizia, ma si attua sotto il diretto controllo del giudice. É al magistrato che la legge riconosce il potere di disporre l'intercettazione e dalla legge stessa sono desumibili i limiti di siffatto potere. La richiesta di provvedimenti autorizzativi della intercettazione va valutata con cautela scrupolosa giacché da provvedimenti del genere deriva una grave limitazione alla libertà e segretezza delle comunicazioni. Nel compiere questa valutazione il giudice deve tendere al contemperamento dei due interessi costituzionali protetti onde impedire che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche venga ad essere sproporzionatamente sacrificato dalla necessità di garantire una efficace repressione degli illeciti penali. A tal fine é indispensabile che accerti se ricorrano effettive esigenze, proprie dell'amministrazione della giustizia, che realmente legittimino simile forma di indagine e se sussistano fondati motivi per ritenere che mediante la stessa possano essere acquisiti risultati positivi per le indagini in corso.
Del corretto uso del potere attribuitogli il giudice deve dare concreta dimostrazione con una adeguata e specifica motivazione del provvedimento autorizzativo. Discende da quanto si é detto - vale a dire dal principio che il diritto garantito dall'art. 15 Cost. possa essere compresso solo nei limiti effettivamente richiesti da concrete, gravi esigenze di giustizia - la conseguenza che il provvedimento di autorizzazione stabilisca anche la durata delle intercettazioni e che, quando una proroga si renda necessaria, se ne offra concreta, motivata giustificazione.
Ma il rispetto della norma costituzionale di raffronto non trova soddisfazione solo nell'obbligo della puntuale motivazione del decreto dell'autorità giudiziaria. Altre garanzie sono richieste: a) garanzie che attengono alla predisposizione anche materiale dei servizi tecnici necessari per le intercettazioni telefoniche, in modo che l'autorità giudiziaria possa esercitare anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell'autorizzazione; b) garanzie di ordine giuridico che attengono al controllo sulla legittimità del decreto di autorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccolto attraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo.
Sul primo punto la Corte osserva che il legislatore gode di un ampio margine di discrezionalità nell'organizzazione del servizio, ma sente il dovere di formulare l'auspicio che si realizzino opportuni interventi legislativi idonei ad attuare anche sul piano tecnico le condizioni necessarie all'effettivo controllo di cui innanzi si é detto.
Sul secondo punto la Corte osserva che non é necessario che le garanzie siano puntualmente poste nel testo normativo che disciplina le intercettazioni, potendo esse essere rinvenute anche in altre norme ed anche nei principi generali che disciplinano le attività processuali.
Sulla base di questa premessa la Corte ritiene:
1) vero é che il decreto di autorizzazione non é di per sé impugnabile; tuttavia il decreto é sindacabile e la sua eventuale illegittimità può essere rilevata nel corso del giudizio;
2) le risultanze delle intercettazioni sono coperte dal segreto, al quale sono tenuti gli ufficiali di polizia giudiziaria e, nel corso dell'istruttoria, chiunque ne abbia preso conoscenza (artt. 230 e 307 c.p.p.);
3) nel processo può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l'imputazione di cui si discute. Sebbene sia auspicabile che la legge predisponga un compiuto sistema - anche a garanzia di tutte le parti in causa - per l'eliminazione del materiale non pertinente, la legge processuale é già ispirata e dominata dal principio (connaturale alla finalità stessa del processo) secondo il quale non può essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il giudizio (principio del quale sono espressione varie norme specificative contenute negli artt. 463 e segg. c.p.p.);
4) l'applicazione del suddetto principio non solo garantisce la segretezza di tutte quelle comunicazioni telefoniche dell'imputato che non siano rilevanti ai fini del relativo processo, ma garantisce altresì la segretezza delle comunicazioni non pertinenti a quel processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l'apparecchio telefonico sottoposto a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con questo.
La Corte ritiene che il rigoroso rispetto di questo principio sia essenziale per la puntuale osservanza degli artt. 2 e 15 della Costituzione: violerebbe gravemente entrambe le norme costituzionali un sistema che, senza soddisfare gli interessi di giustizia, in funzione dei quali é consentita la limitazione della libertà e della segretezza delle comunicazioni, autorizzasse la divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo.
In definitiva la disciplina vigente sulle intercettazioni telefoniche qui in esame non si pone in contrasto con l'art. 15 della Costituzione. Dal disposto di questo articolo, che espressamente enuncia la possibilità di limitazioni del diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge, é dato inferire che il principio enunciato dal primo comma della norma costituzionale sarebbe gravemente compromesso se a carico dell'interessato potessero valere, come indizi o come prove, intercettazioni telefoniche assunte illegittimamente senza previa, motivata autorizzazione dell'autorità giudiziaria. Se ciò avvenisse, un diritto "riconosciuto e garantito" come inviolabile dalla Costituzione sarebbe davvero esposto a gravissima menomazione.
A questo proposito la Corte sente il dovere di mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito. Tuttavia la Corte ritiene che siffatta grave lesione dei diritti costituzionali non possa verificarsi, atteso che - in riferimento all'esigenza di legalità che presiede al processo (particolarmente quando si tratti di osservanza della Costituzione) - si deve riconoscere che l'ordinamento processuale non contiene, e specificamente in ordine alle intercettazioni illegittime, alcuna norma che ostacoli e menomi l'effettiva vigenza di quel principio. Ché, anzi, può e deve ritenersi che tale vigenza é confermata e trova espressione in disposizioni di recente formulazione, quale é quella ora contenuta nell'ultima parte del terzo comma dell'art. 304 c.p.p.: una volta ammesso che la facoltà di nomina del difensore prima dell'interrogatorio costituisce esercizio del diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24 Cost., coerentemente il legislatore - in puntuale specificazione di un principio già immanente nell'ordinamento - ha escluso la "utilizzabilità" della dichiarazione resa dall'interessato prima di quella nomina.
3. - Del pari infondato é il motivo di incostituzionalità in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione sul quale prevalentemente si sofferma l'ordinanza di rimessione. Il richiamo della garanzia del diritto di difesa, in collegamento con la facoltà oggi riconosciuta all'imputato di serbare il silenzio dinanzi all'autorità giudiziaria o all'ufficiale di polizia giudiziaria interrogante (art. 78 nel testo modificato dalla legge n. 932 del 1969) non é affatto pertinente alla ipotesi di indagine preliminare all'istruttoria effettuata col mezzo delle intercettazioni telefoniche che viene in considerazione.
La garanzia del diritto a non rispondere all'autorità inquirente é una recente specificazione del diritto di difesa enunciato dalla Costituzione che il legislatore del 1969 ha introdotto nel nostro ordinamento unicamente con riferimento alla situazione dell'interrogatorio dell'imputato; ad una ipotesi cioè in cui l'inquisito viene posto a contatto diretto con l'autorità procedente. Scopo dell'istituto é evidentemente quello di rafforzare la libertà morale dell'imputato per sollevarlo dallo stato di soggezione psicologica in cui possa venire a trovarsi a cospetto dell'autorità e per porlo a riparo da eventuali pressioni che su di lui possano essere esercitate.
Situazione del tutto diversa dall'interrogatorio é quella delle dichiarazioni o ammissioni di responsabilità spontaneamente fatte da un sospettato o indiziato nel corso di una conversazione telefonica intercettata su autorizzazione dell'autorità giudiziaria in sede di indagini preliminari all'istruttoria. In questo caso il soggetto non é posto a confronto diretto con l'autorità, non é da questa sollecitato a rispondere, non può subire pressioni di sorta; trovasi quindi in posizione nella quale la garanzia del diritto al silenzio, nei termini in cui é stata realizzata nel nostro codice di rito, non ha alcuna ragione e possibilità di operare.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 226, ultimo comma, del codice di procedura penale proposta dal tribunale di Bolzano, con l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli artt. 15 e 24 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 1973.
Francesco PAOLO BONIFACIO - Giuseppe VERZÌ – Giovanni BATTISTA BENEDETTI – Francesco PAOLO BONIFACIO – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Paolo ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 6 aprile 1973.