L'assoluzione in sede penale non esclude, a determinate condizioni, la legittimità di una autonoma valutazione dei profili di pericolosità soggettiva da parte del giudice della prevenzione.
Corte di Cassazione
sez. II Penale, sentenza 22 marzo -24 giugno 2019, n. 27855
Presidente Cervadoro – Relatore Perrotti
Ritenuto in fatto
1. Con l’impugnato decreto, la Corte di Appello di Palermo ha confermato il provvedimento emesso dal tribunale del medesimo capoluogo in data 11 luglio 2017, che aveva rigettato la domanda, proposta il 3 febbraio 2017 nell’interesse di V.B. , di revoca ex tunc del decreto applicativo delle misure di prevenzione personali e reali, per pericolosità qualificata (appartenenza ad associazione mafiosa), reso definitivo in data 5 ottobre 2001 per mancata impugnazione (la procedura di revoca è stata trattata ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7, comma 2).
1.1. La domanda era fondata, si puntualizza con i motivi di ricorso, non tanto sul novum costituito dal succedersi di più pronunce di assoluzione (nei giudizi penali tesi all’accertamento dei fatti) per i fatti associativi di natura mafiosa, che costituiscono al contempo il presupposto della ritenuta pericolosità qualificata, quanto per la inconciliabilità logica del decreto applicativo della misura di prevenzione e della sentenza che proscioglie lo stesso imputato da quei medesimi addebiti (sebbene in prevenzione non formalizzati in una imputazione), fondata quest’ultima sui medesimi elementi di "prova" che avevano dato luogo alle misure di prevenzione.
1.2. La Corte di appello, nel rigettare l’impugnazione, afferma che i fatti posti a fondamento della sentenza di proscioglimento dall’accusa di partecipazione associativa mafiosa erano già conosciuti dall’organo della prevenzione e che l’acquiescenza prestata alla decisione adottata in grado di appello non consente oggi di riproporre doglianze postume.
Par altro verso, la Corte territoriale rileva che i fatti omogenei giudicati con la sentenza di assoluzione (irrevocabile nel 2009) sono diversi e successivi rispetto a quelli che hanno formato oggetto di valutazione nell’ambito della procedura di prevenzione e con essi, pertanto, non inconciliabili.
Non si verte quindi, assumeva il tribunale della prevenzione, in materia di divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto, data la natura non propriamente penale del giudizio di prevenzione e ciò rende infondata la ipotesi di una automatica prevalenza della decisione più favorevole, né si verte in tema di pregiudizialità, il che determina l’esistenza di uno "spazio autonomo di valutazione" del giudice della prevenzione. Dunque la base fattuale del giudizio di prevenzione non sarebbe stata smentita, il che determina la conferma della decisione di rigetto della domanda di revoca, basata esclusivamente su una diversa lettura di elementi indiziari già "stabilizzati" nella decisione definitiva.
2. Avverso detto decreto ha proposto ricorso per cassazione - a ministero del proprio difensore - V.B. , articolando un unico motivo teso ad evidenziare la inconciliabilità dei due differenti "accertamenti".
2.1 Si deduce violazione di legge, con particolare riferimento ai contenuti della L. n. 1423 del 1956, art. 7, mancanza assoluta di motivazione sul vizio dedotto e violazione del principio di non contraddizione tra giudicati.
La difesa ribadisce, infatti, che nella sede propria deputata dalla liturgia penale all’accertamento del fatto sono stati valutati i medesimi elementi di prova e qui "il proposto" è stato assolto dalla contestazione associativa di natura mafiosa. Dunque, è la v. storica degli elementi di prova ad essere stata sostanzialmente azzerata in sede penale.
Donde la richiesta di revoca ex tunc, non potendo residuare - in tesi - alcuna autonoma valutazione del giudice della prevenzione.
Si deduce inoltre motivazione apparente non essendo state colte le ragioni della asserita inconciliabilità ed apprezzati gli effettivi contenuti della decisione di assoluzione dall’accusa di partecipazione mafiosa, tali da neutralizzare anche la connotazione della condotta in termini di mera appartenenza.
La decisione penale avrebbe, in particolare, escluso che la dimostrata vicinitas tra il V. e il gruppo mafioso Vi. fosse indicativa, da sé sola, di apporto funzionale efficace alla compagine oggetto di riprovazione sociale e penale. I contenuti argomentativi della decisione di assoluzione sarebbero tali da impedire il mantenimento dell’inquadramento nella figura tipica oggi presa in esame - con continuità normativa – dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, comma 1 lett. a.
3. Il Procuratore generale presso questa Corte, in data 7 marzo 2019, ha depositato conclusioni scritte ed ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato, va pertanto rigettato.
1.1. L’analisi dei temi introdotti dal ricorrente richiede - anche alla luce dei recenti arresti di questa Corte (Sez. U. n. 111 del 30.11.2017, dep. 2018 ric. Gattuso; Sez. 2, n. 11846, del 19/1/2018, Rv. 272496; Sez. 1, n. 31209, del 24/3/2015, Rv. 264319) talune premesse di inquadramento dogmatico.
1.2. Il primo aspetto riguarda le norme azionabili, in una con la natura del rimedio che si ritiene esperibile, dal soggetto raggiunto da una misura di prevenzione (personale e patrimoniale) definitiva, lì dove ipotizzi di rimuovere tale peculiare "giudicato" in virtù di “sopravvenienze” che si assumono favorevoli.
1.3. Il provvedimento conclusivo del "giudizio" di prevenzione ha natura di sentenza, pur assumendo la forma del decreto, in quanto incide in maniera stabile - ed a seguito di contraddittorio in ambito giurisdizionale - su diritti soggettivi, determinandone la temporanea limitazione o la perdita. (si pensi al diritto di proprietà in caso di confisca, salvo revocazione). Come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 225 del 1996), quella in tema di prevenzione è giurisdizione “limitativa di diritti” il che comporta il continuo confronto con taluni principi elaborati in sede penale, ferme restando le differenze strutturali e funzionali. In ipotesi di difformità di esito tra il giudizio di prevenzione (approdato ad applicazione della misura) e un giudizio penale correlato, la prima ipotesi di individuazione di una disposizione regolatrice è quella, coltivata dalla difesa, delle norme che prendono in esame la pluralità di giudicati sul "medesimo fatto". In particolare, la medesimezza del fatto, ove rilevata, da un lato impedirebbe la duplice trattazione dei procedimenti (art. 649 c.p.p.), dall’altro in ipotesi di avvenuta trattazione/determinerebbe la revoca automatica del provvedimento “pregiudizievole” e la messa in esecuzione della sola decisione favorevole (ai sensi dell’art. 669 c.p.p., comma 8). Tuttavia, pur ravvisando "interferenze cognitive" tra i due procedimenti, appare evidente che la nozione di bis in idem non è consonante alla fattispecie (Sez. 2, n. 26235, del 4/6/2015, Rv. 264387). Sul punto è decisiva la diversità ontologica tra misura di prevenzione (intesa come strumento di limitazione di taluni diritti fondamentali, in funzione di contenimento della pericolosità sociale) e la pena in senso stretto (intesa come reazione dell’ordinamento alla commissione di un fatto tipico costituente reato, con finalità mista di riequilibrio del disvalore sociale e promozione della rieducazione,,anche attraverso connotati di consistente afflizione). Il provvedimento impugnato (nella veste della duplice conformità) contiene, quindi, argomentazioni del tutto indenni da vizi in diritto, non scalfite dal contenuto del ricorso.
1.4. Orbene, lì dove invece la ricostruzione dei "fatti" funzionale alla formulazione della prognosi di pericolosità in prevenzione venga successivamente "smentita" dagli esiti definitivi di un giudizio penale, è evidente che a venire in rilievo (come giù emerso nella linea interpretativa formatasi sulla L. n. 1423 del 1956, art. 7, seguita a partire da Sez. U. n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, Pisco) è il tema del "contrasto tra giudicati" (che rimanda all’istituto della revisione), con tendenziale prevalenza della valutazione realizzata nel contesto dotato di maggiori garanzie di affidabilità della decisione, rappresentato, indubbiamente, dal giudizio penale. Si tratta del risvolto del tema che già questa Corte ha esaminato trattando i profili delle misure di prevenzione in cognizione, ove si è affermato che lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità risultino legislativamente caratterizzate (nell’ambito di previsioni da ritenersi tipizzanti, come quelle di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 1 e 4) in termini per lo più evocativi di fattispecie penali (quali le “ricorrenti condotte delittuose” da cui il soggetto trae sostegno, i traffici illeciti, l’indizio di appartenenza ad organismo mafioso, l’indizio di commissione di uno o più fatti di reato ricompresi in una norma di rinvio) è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali “fatti”) non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su “quella” condotta (ingrediente necessario della preliminare iscrizione nella categoria normativa di pericolosità) ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità soggettiva (Sez. 1 n. 31209 del 2015, cit.; nonché, Sez. 5, n. 6067, del 6/12/2016, Rv. 269026; Sez. 1, n. 36258, del 2017, ric. Celini ed altri). L’interferenza cognitiva tra i due procedimenti (penale e di prevenzione) è tema quindi ineludibile, sia pure nell’ambito di previsioni di legge che realizzino un bilanciamento, imposto dalle particolari caratteristiche del giudizio di prevenzione.
1.5. Questa è, peraltro, la linea seguita dal legislatore delegato del 2011 (D.Lgs. n. 159) in tema di revocazione della confisca (art. 28), istituto che realizza - per la prima volta- una normativizzazione dei principi affermatisi in giurisprudenza dal 1998 in poi, attraverso la previsione della domanda di revocazione quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca. Ebbene, pare evidente che il legislatore, alla lett. b) del comma 1 del detto articolo, dedicato alla revoca della confisca, con il concetto di “esclusione in modo assoluto..” abbia inteso preservare da automatismi (sia pure in un ambito di favore verso la revocabilità) la tenuta del giudicato di prevenzione, favorendo la costruzione interpretativa di quegli "spazi di autonomia" del giudice della prevenzione che il provvedimento qui impugnato rivendica, specie in tema di misura di prevenzione applicata per una ipotesi di pericolosità qualificata di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, comma 1, lett. a, sulla scia di una costante linea interpretativa pregressa di legittimità (Sez. 6, n. 50946, del 18/9/2014, Rv. 261591; Sez. 6, n. 921, del 11/11/2014, Rv. 261842; Sez. 1, n. 6636, del 7/1/2016, Rv. 266364; Sez. 5, n. 9505, del 17/1/2006, Rv. 233892).
1.6. Ora, ferma restando la riaffermazione di tali spazi di autonomia, va precisato che il generale principio di non-contraddizione dell’ordinamento, in una con la scelta legislativa di accordare tendenziale preferenza al giudicato penale favorevole (nel merito della responsabilità), impone di costruirne il senso in termini di possibile valorizzazione di dati obiettivi che si pongano come fattore di giustificazione al mantenimento della misura di prevenzione, pure a fronte di un “incidente” giudicato penale di assoluzione. In particolare, lì dove la "interferenza cognitiva" tra i due procedimenti (di prevenzione e penale) vada a cadere su un ingrediente essenziale della parte ricostruttiva del giudizio di prevenzione, è da escludersi che possa farsi leva su tale spazio di autonomia per giustificare, in sede di esame della domanda di revoca, il mantenimento in essere del provvedimento applicativo della misura di prevenzione. Ciò perché il recupero di tassatività descrittiva delle categorie tipiche di pericolosità è stato realizzato proprio attraverso la valorizzazione della “correlazione” con uno o più delitti realizzati dal soggetto proposto (sicché, lì dove la valutazione del giudice della prevenzione sia poi smentita dal giudice della cognizione penale) viene meno uno dei presupposti tipici cui era ancorata la misura di prevenzione). È viceversa possibile mantenere la misura - lì dove il segmento fattuale “azzerato” dal diverso esito del giudizio penale si inserisca come ingrediente fattuale solo concorrente e minusvalente rispetto ad altri episodi storici rimasti confermati (o non presi in esame in sede penale), o dove il giudizio di prevenzione si basi su elementi cognitivi realmente autonomi e diversi rispetto a quelli acquisiti in sede penale, o ancora lì dove la conformazione legislativa del tipo di pericolosità prevenzionale risulti essere realizzata in modo sensibilmente diverso rispetto ai contenuti della disposizione incriminatrice oggetto del giudizio penale (è il caso del rapporto che intercorre tra la nozione di “appartenenza” e quella di “partecipazione” alla associazione di cui all’art. 416 bis c.p.).
1.7. Può quindi affermarsi (adesivamente a principi declinati da Sez. 1, n. 24707, del 1/2/2018, Rv. 273361) che:
- tra procedimento di prevenzione e procedimento penale intercorrono diversità strutturali e finalistiche che impediscono di ritenere applicabili, con meccanico automatismo, le disposizioni regolatrici in tema di divieto di un secondo giudizio sul medesimo fatto (artt. 649 e 669 c.p.p.);
- in ipotesi di esito favorevole di un giudizio penale, nel cui ambito sia stato preso in esame, nei confronti del medesimo soggetto, un fatto storico incidente sul giudizio di pericolosità formulato in prevenzione, resta esperibile la domanda di revoca ex tunc, ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7, ove non possano trovare applicazione le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 159 del 2011;
- l’avvenuta formalizzazione da parte del legislatore del 2011 dell’istituto della revocazione della confisca (D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 28) ha v. di criterio orientativo per la soluzione di questioni di fatto e di diritto poste dal soggetto istante in procedura di revoca ex tunc;
- la opzione del legislatore del 2011 verso la tendenziale prevalenza del giudicato favorevole venuto in essere in sede penale, con regolamentazione espressa del particolare caso di contrasto tra giudicati, non esclude, a determinate condizioni, la legittimità di una autonoma valutazione dei profili di pericolosità soggettiva da parte del giudice della prevenzione, ove risulti adeguatamente motivata in fatto la permanenza dell’inquadramento del soggetto in una delle categorie tipizzate di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 1 e 4.
2. Ciò posto, la Corte di appello di Palermo ed il tribunale che l’ha preceduta in conformità di giudizio hanno realizzato, nel provvedimento impugnato, una coerente applicazione di tali principi di fondo, con conseguente infondatezza delle doglianze mosse dal ricorrente.
Il tutto, in un ambito normativo (la materia della pericolosità qualificata) che la recentissima giurisprudenza costituzionale (Sent. n. 24 del 2019) ha tenuto totalmente indenne dalle censure di genericità e deficit strutturali nella formazione della previsione normativa.
2.1. Ben vero, come pure evidenziato dal ricorrente, la diversità tra la nozione di appartenenza alla associazione di cui all’art. 416 bis c.p. (attuale D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, comma 1, lett. a) e quella di partecipazione (chiunque fa parte di..), contenuta nella disposizione incriminatrice di carattere penale, è stata di recente "ridimensionata" dai contenuti dell’arresto rappresentato da Sez. U. 2018 ric. Gattuso, con opzione condivisa e fatta propria dal Collegio, lì dove si è affermato che il concetto di "appartenenza" ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla "partecipazione", si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.
In ciò risulta superato l’orientamento giurisprudenziale teso, per converso, a valorizzare, a fini di inquadramento nella categoria tipica di prevenzione, forme di vicinanza meramente ideologica o espressive di cultura comune.
È stata affermata, dunque, come preferibile l’opzione interpretativa che consente di ricomprendere nella nozione di appartenenza tanto le condotte indicative della vera e propria partecipazione che quelle di supporto causale del non-associato, rientrati sul versante penale - nell’area del concorso esterno (Sez. 6, n. 17229, del 2009; Sez. 1, n. 16783 del 2010) o comunque idonee ad apportare un “contributo fattivo” alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso (Sez. 6, n. 3941, del 8/1/2016, per cui il concetto di "appartenenza" ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, richiede l’apprezzamento di una situazione di contiguità all’associazione stessa che risulti funzionale agli interessi della struttura criminale).
2.2. A tale nozione risulta, tuttavia, essersi attenuta la valutazione del giudice della prevenzione, che ha valorizzato una condotta di “vicinanza funzionale” alla famiglia Vi. - non smentita in sede penale -, in quanto commessa al fine di realizzare forme di monopolio illecito (con reciproco vantaggio) in un settore ritenuto strategico dalla aggregazione criminale.
2.3. Tanto basta a sostenere in diritto la decisione di diniego della revoca e conduce al rigetto del ricorso qui proposto, atteso che le doglianze su tale punto, esposte nel ricorso, involgono questioni in fatto non esaminabili in sede di legittimità, anche in relazione alla limitazione normativa dei motivi di ricorso, con esclusione della ricorribilità per vizio di motivazione.
3. Al rigetto dei ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.