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Armi bianche, armi da fuoco, armi proprie, armi improprie (Cass. 22998/24)

7 giugno 2024, Cassazione penale

Sono da qualificare armi tutti gli strumenti atti ad offendere e che, sono destinati a recare un'offesa o un danno ad altro soggetto.

All'interno della categoria si distingue tra le armi bianche e quelle da fuoco: le prime comprendono tutti gli strumenti atti ad offendere che possono provocare ferite per mezzo di punte (come pugnali e baionette), forme contundenti (manganelli) o lame di metallo (come sciabole, spade, katane) ed altresì, quelle che permettono di scagliare altri oggetti (archi, balestre, cerbottane, o cd. armi da lancio).

In generale, le armi bianche, sfruttano solo la forza di chi le impugna e la potenzialità lesiva dell'oggetto.

Le armi da fuoco sono strumenti atti ad offendere che sfruttano il particolare meccanismo costruttivo, basato sull'esplosione o sulla deflagrazione. Esse integrano la categoria delle classiche armi da sparo e utilizzano, dunque, una peculiarità di tipo esplosivo (pistole, bombe, fucili, ecc.).

Le armi da fuoco si contraddistinguono, allora, per un utilizzo ben diverso dalle armi bianche. Queste ultime richiedono la forza e l'abilità dell'utilizzatore; quelle da fuoco, sfruttano, per recare offesa, il semplice risultato del meccanismo esplosivo.

Le armi improprie, a differenza di quelle proprie, possono essere qualificate come strumenti idonei a offendere, ma non hanno, in via esclusiva e per destinazione naturale, quello scopo, né sono state ideate e realizzate per quella finalità.

Si possono definire improprie, allora, le armi che, per loro natura, non sono destinate all'offesa della persona, pur potendo, tuttavia, nuocere, se utilizzate in maniera pericolosa (cacciaviti, martelli, asce, trapani, catene, tubi di ferro) dunque qualsiasi strumento che, pur non avendo come naturale destinazione l'offesa, può essere utilizzato anche con quel fine.

La giurisprudenza di legittimità ha spiegato che, in tema di reati concernenti le armi, per arma in senso proprio deve intendersi quella la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona; rientrano in tale categoria, secondo l'art. 30 T.U.L.P.S. e l'art. 45 comma primo, del relativo regolamento, sia le armi da sparo che quelle cosiddette bianche. Sono, invece, armi improprie quelle che, pur avendo una specifica diversa destinazione, possono tuttavia servire all'offesa personale, secondo le indicazioni date dall'art. 4 legge n. 110 del 1975.

Delle armi proprie, in genere, è vietata la detenzione non previamente denunciata all'autorità di pubblica sicurezza; delle armi improprie è vietato solo il porto, non anche la detenzione.

 

Corte di Cassazione

 sez. IV penale

ud. 17 aprile 2024 (dep. 7 giugno 2024), n. 22998

Ritenuto in fatto

1. CF, a mezzo di difensore, impugna la sentenza con la quale la Corte di appello di L'Aquila ha confermato la condanna, resa in data 26 aprile 2019, dal Tribunale di Pescara, alla pena di mesi due di arresto ed euro mille di ammenda, in relazione al reato di cui all'art. 4 legge n. 110 del 1975, riconosciuta la fattispecie della lieve entità, per aver portato, senza giustificato motivo, all'interno della tasca del giubbotto un martello da muratore.

2. Avverso il provvedimento descritto, per il tramite del difensore, l'imputato denuncia due vizi attraverso due motivi di seguito riassunti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con il primo motivo si deduce inosservanza o erronea applicazione di legge penale, nonché vizio di motivazione.

Nel caso di specie, il difetto di giustificazione del porto del martello trova diffusa spiegazione nelle motivazioni dei provvedimenti di merito di entrambi i gradi di giudizio; tuttavia, la Corte d'appello non avrebbe esaminato la sussistenza dell'ulteriore requisito richiesto dalla legge perché sia integrato il reato, cioè l'idoneità del martello ad offendere una persona e la sussistenza del proposito di arrecare offesa, derivante in maniera non equivoca dalle circostanze di tempo e di luogo.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione di legge penale, nonché vizio di motivazione in relazione alla pena irrogata con riferimento al fatto di lieve entità.

Il Tribunale di Pescara ha applicato sia la pena detentiva che quella pecuniaria mentre avrebbe dovuto applicare soltanto la seconda.

La Corte di appello ha ritenuto non fondato il motivo di gravame perché non sussiste la lieve entità del fatto, invece, già ritenuta all'esito del giudizio di primo grado, senza modificare la pena irrogata.

3. Il Sostituto Procuratore generale di questa Corte, O. Mignolo, intervenuto con requisitoria scritta, stante la mancata tempestiva richiesta di trattazione orale, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, come convertito, richiamato da ultimo dall'art. 94, comma 2, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nel testo introdotto dall'art. 17, d.l. 22 giugno 2023, n. 75, conv. con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112, ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio relativamente al trattamento sanzionatorio con inammissibilità, nel resto, del ricorso.

La difesa ha fatto pervenire, con p.e.c. del 4 gennaio 2024, conclusioni scritte con le quali ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1. Il secondo motivo di ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Osserva il Collegio che sono da qualificare armi tutti gli strumenti atti ad offendere e che, sono, naturalmente, destinati a recare un'offesa o un danno ad altro soggetto.

All'interno della categoria si distingue tra le armi bianche e quelle da fuoco.

Le prime comprendono tutti gli strumenti atti ad offendere che possono provocare ferite per mezzo di punte (come pugnali e baionette), forme contundenti (manganelli) o lame di metallo (come sciabole, spade, katane).

Nella categoria rientrano, altresì, quelle che permettono di scagliare altri oggetti (archi, balestre, cerbottane, o cd. armi da lancio).

In generale, le armi bianche, sfruttano solo la forza di chi le impugna e la potenzialità lesiva dell'oggetto.

Le armi da fuoco sono strumenti atti ad offendere che sfruttano il particolare meccanismo costruttivo, basato sull'esplosione o sulla deflagrazione. Esse integrano la categoria delle classiche armi da sparo e utilizzano, dunque, una peculiarità di tipo esplosivo (pistole, bombe, fucili, ecc.).

Le armi da fuoco si contraddistinguono, allora, per un utilizzo ben diverso dalle armi bianche. Queste ultime richiedono la forza e l'abilità dell'utilizzatore; quelle da fuoco, sfruttano, per recare offesa, il semplice risultato del meccanismo esplosivo.

Le armi improprie, a differenza di quelle proprie, possono essere qualificate come strumenti idonei a offendere, ma non hanno, in via esclusiva e per destinazione naturale, quello scopo, né sono state ideate e realizzate per quella finalità.

Si possono definire improprie, allora, le armi che, per loro natura, non sono destinate all'offesa della persona, pur potendo, tuttavia, nuocere, se utilizzate in maniera pericolosa (cacciaviti, martelli, asce, trapani, catene, tubi di ferro) dunque qualsiasi strumento che, pur non avendo come naturale destinazione l'offesa, può essere utilizzato anche con quel fine.

La giurisprudenza di legittimità ha spiegato che, in tema di reati concernenti le armi, per arma in senso proprio deve intendersi quella la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona; rientrano in tale categoria, secondo l'art. 30 T.U.L.P.S. e l'art. 45 comma primo, del relativo regolamento, sia le armi da sparo che quelle cosiddette bianche. Sono, invece, armi improprie quelle che, pur avendo una specifica diversa destinazione, possono tuttavia servire all'offesa personale, secondo le indicazioni date dall'art. 4 legge n. 110 del 1975.

Delle armi proprie, in genere, è vietata la detenzione non previamente denunciata all'autorità di pubblica sicurezza; delle armi improprie è vietato solo il porto, non anche la detenzione (Sez. 1, n. 14953 del 17/03/2009, Gebril, Rv. 243917 - 01; Sez. 1, nr. 3377 del 22/02/1995, Scalmana, Rv. 200698 - 01).

Si è concluso in giurisprudenza, poi, con riferimento ad un martello con manico notevolmente lungo (pari a cm. 50: Sez. 1, n. 661 del 05/12/1983, dep. 1984, Gabutti, Rv. 162312 - 01), che il divieto sancito dall'art. 4 della legge n. 110 del 1975 in relazione al porto, senza giustificato motivo, di oggetti atti ad offendere, non concerne solo gli strumenti da punta o da taglio, ma anche altri strumenti che, sebbene non considerati come armi da punta o da taglio, sono chiaramente utilizzabili per le circostanze di tempo e di luogo, per l'offesa alla persona.

Ciò posto, si osserva che sulla sussistenza del fatto il giudice territoriale ha motivato, in modo non manifestamente illogico e, anzi, con ragionamento in linea con i principi giurisprudenziali sin qui richiamati (cfr. p. 3), descrivendo il martello di cui alla contestazione, reperito nella disponibilità dell'imputato come quello usato da carpentieri con manico lungo, tale da identificarsi in uno strumento di potenzialità lesiva, precisando, peraltro, che non era emerso che C.F. fosse muratore.

Del resto, il reato contestato è contravvenzionale, dunque quanto all'elemento soggettivo e alla sua configurabilità è sufficiente la mera colpa.

2.2. Il secondo motivo è fondato nei limiti di seguito indicati.

La Corte di appello ritiene di escludere la lieve entità del fatto ai sensi dell'art. 4, comma 3, legge n. 110 del 1975 senza considerare che questa era già stata riconosciuta dal primo giudice (cfr. dispositivo della sentenza del Tribunale di Pescara, riportato anche nella intestazione della sentenza di appello, a p. 1) in assenza di impugnazione, sul punto, della parte pubblica.

Orbene, a fronte di tale riconoscimento della lieve entità del fatto, la pena congiunta non è affetta da illegalità, posto che questa ben poteva essere irrogata con apposita giustificazione, non rappresentando il minimo edittale, tenuto conto che, per effetto della riconosciuta fattispecie attenuata, il giudice "può" applicare la sola pena pecuniaria.

Tuttavia, sul punto, il primo giudice nulla ha esposto a giustificazione della scelta del trattamento sanzionatorio nel senso della pena congiunta, limitandosi ad utilizzare la formula "pena equa". Né il giudice di appello si è soffermato su tale specifico motivo di gravame, posto che si è, anzi, intrattenuto a indicare le ragioni per le quali non poteva essere riconosciuta la lieve entità ex art. 4, comma 3, legge n. 110 del 1975, nonostante l'avvenuta concessione di questa già all'esito del primo grado di giudizio. Tanto, a fronte della richiesta di applicazione, quanto al trattamento sanzionatorio, della sola pena pecuniaria dell'ammenda in misura corrispondente al minimo edittale.

Si impone, pertanto, rilevato il vizio di motivazione sul punto, l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, rilevando che, allo stato, il reato contravvenzionale ascritto all'imputato non è estinto per prescrizione.

Invero, il fatto è stato commesso in epoca successiva all'entrata in vigore della legge n. 103 del 2017 (in quanto accertato il 7 febbraio 2018, dunque dopo il 3 agosto 2017 e prima del 1° gennaio 2020) essendosi verificata medio tempore, una tempestiva causa di interruzione del corso della prescrizione (sentenza di primo grado del 26 aprile 2019).

Sicché, ai cinque anni, quale termine massimo di prescrizione, derivanti dal combinato disposto di cui agli artt. 157 e 160 cod. pen., si aggiunge il periodo di sospensione ex lege n. 103 del 2017 cit., introdotto al comma secondo dell'art. 159 cod. pen.

Infatti, la disciplina della sospensione prevista dalla cd. legge Orlando, al secondo comma dell'art. 159 cod. pen., entrata in vigore in data 3 agosto 2017, è stata, successivamente, abrogata soltanto per effetto della legge n. 3 del 2019, in vigore dal 1° gennaio 2020, a sua volta abrogata dalla legge n. 134 del 2021. Dunque, il secondo comma dell'art. 159 cod. pen., nella versione introdotta dalla legge n. 103 del 2017, senz'altro più favorevole rispetto alle norme successive in punto sospensione della prescrizione, ha avuto vigenza dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019, range temporale entro il quale è stata commessa la contravvenzione per la quale si procede.

Pertanto, applicando quale più favorevole, la disciplina della sospensione del corso della prescrizione prevista dalla legge n. 103 del 2017 al caso di specie, deriva che al termine massimo di anni cinque (che sarebbe spirato in data 7 febbraio 2023) va aggiunto un ulteriore periodo di sospensione del corso della prescrizione di un anno e sei mesi, con conseguente termine di prescrizione al 7 agosto 2024.

3. Deriva da quanto sin qui esposto, l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello competente e declaratoria di inammissibilità, nel resto, del ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di L'Aquila. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.