Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Articoli

Appello riforma la sentenza assolutoria: e i testimoni? Conseguenze italiane della sentenza Dan vs Moldavia

23 aprile 2013, Massimario della Corte di Cassazione

A seguito dell'orientamento CEDU il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato - in base all?art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell?uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia ? alla rinnovazione dell?istruzione dibattimentale quando intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile. 

 

Dan contro Moldavia: conseguenze sul'ordinamento italiano (2013)

orientamento di giurisprudenza

 SOMMARIO: 1. Premessa ? 2. I primi interventi della giurisprudenza ? 3. La legge n. 46 del 2006; la sostanziale inappellabilità delle sentenze assolutorie ? 4. La sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007; il ripristino del potere di appello pieno del p.m. - 5. L?orientamento della giurisprudenza successivo alla sentenza della Consulta; la valorizzazione del principio dell??oltre ogni ragionevole dubbio?. ? 6. La sentenza della Corte Edu nel caso Dan c/ Moldavia. - 7. L?applicabilità dei principi contenuti nella sentenza Dan c. Moldavia nel diritto interno.

 

1. Premessa. - Il processo penale, delineato nel codice entrato in vigore nel 1989, prevede un giudizio di primo grado con una struttura tipicamente accusatoria e caratterizzato - almeno tendenzialmente - dall?acquisizione delle prove nel rispetto dei principi di oralità, immediatezza e contraddittorio.

Il giudice di prime cure, infatti, giunge alla sua decisione sulla scorta di un materiale probatorio che, salve le eccezioni riguardanti soprattutto gli atti irripetibili acquisiti in fase investigativa e le prove di natura documentale, si forma direttamente in sua presenza e nel contraddittorio delle parti, in posizioni di parità.

Con l?entrata in vigore nel 1999 del principio costituzionale del giusto processo, contenuto nell?art. 111, la raccolta in forma dialettica delle prove è divenuto il metodo epistemologico costituzionalmente obbligato.

Il codice, in ossequio anche ad una tradizione radicata nella nostra cultura giuridica, ha anche adottato il doppio grado di giurisdizione, che consiste nella possibilità di ottenere, sul merito della regiudicanda, una seconda pronuncia da parte di un giudice diverso, destinata a prevalere sulla prima (1).

Questo ulteriore grado di giudizio di merito è costituito dall?appello, caratterizzato dalla piena e totale devolutività, sia pure nel rispetto dei limiti dell?impugnazione proposta dalle parti, con la possibilità, quindi, di una rivisitazione, in peius e ed in melius, della prima decisione.

 

Questo giudizio, però, si limita quasi sempre ad un controllo (2) di quanto in precedenza avvenuto e di conseguenza ha natura squisitamente cartolare e scritta (3).

In appello, infatti, non si assumono prove ma ci si limita a decidere sul materiale formatosi in primo grado. Si può procedere alla rinnovazione parziale del dibattimento, ex art. 603 cod. proc. pen., ma solo in presenza di specifiche condizioni, previste dalla norma citata.

La rinnovazione in parola non è, inoltre, presupposto indispensabile per giungere ad un epilogo decisorio del tutto alternativo a quello del processo di primo grado.

Vi è, dunque, una discrasia nella struttura dei due riti nei diversi gradi, giustificata, sul piano della razionalità complessiva del sistema, in funzione di garantire una maggiore ponderazione della decisione, destinata all?irrevocabilità.

Aspetti di particolare criticità del sistema risiedono soprattutto nella possibilità che, a seguito di impugnazione del p.m., una sentenza assolutoria di primo grado venga ribaltata con una di affermazione di responsabilità.

In questo caso, l?imputato non solo non ?beneficia? di una prova assunta in contraddittorio dal giudice chiamato a decidere ma finisce per non poter godere di un doppio vaglio di un giudizio di merito; la sentenza, infatti, potrà essere impugnata solo per motivi di legittimità, in Cassazione; con una evidente disparità di trattamento con chi sia stato riconosciuto colpevole già in primo grado, che può ottenere una rivisitazione piena della decisione, per lui eventualmente negativa (4).

Ed è per tali motivi che da più parti si è prospettata, soprattutto a seguito della modifica dell?art. 111 Cost., l?illegittimità costituzionale dell?appello del p.m. contro le sentenze di assoluzione (5) o, quantomeno, si è richiesta una riforma che sterilizzasse il più possibile gli aspetti problematici (6).

Nel 2006, il legislatore con la legge n. 46 ha provato ad intervenire, ma lo ha fatto in modo decisamente incongruo, evidentemente punitivo per le esigenze di giustizia di cui è portatrice la parte pubblica del processo, tanto da meritare un intervento totalmente demolitorio della Corte Costituzione, che ha di fatto riportato la situazione allo status quo ante.

 

Nella giurisprudenza della Suprema Corte, sia prima che dopo l?intervento del legislatore e della Consulta, gli aspetti problematici che caratterizzano la struttura dell?appello sono stati adeguatamente tenuti presente.

Nel corso degli anni si è andato via via formando un orientamento che, senza ovviamente mettere in discussione il carattere devolutivo dello strumento di impugnazione in parola, ha cercato di enucleare precise (e restrittive) condizioni, in presenza delle quali potesse intervenire una totale reformatio in peius.

Ed in questa fase di formazione del diritto vivente si è inserita anche una sentenza della Corte europea dei diritti dell?Uomo che nel 2011 ha dettato sul punto principi di particolare rilevanza. Nel prosieguo di questa breve trattazione, si riporterà sinteticamente l?evoluzione della giurisprudenza sull?argomento, non mancando di fare cenno alla modifica legislativa, sia pure, come detto, definitivamente espulsa dal sistema.

 

2. I primi interventi della giurisprudenza. - Nella prima fase di applicazione delle norme del nuovo codice di rito, nella giurisprudenza della Corte si è affermata una posizione che tendeva a considerarecon disfavor il ribaltamento della sentenza di primo grado, soprattutto- ma, in verità, non solo - quando essa giungeva ad una riforma in peius di una decisione assolutoria.

Il giudice di appello non poteva, infatti, limitarsi ad indicare una alternativa ricostruzione del fatto; doveva, invece, confrontarsi con gli argomenti addotti a sostegno della prima decisione, evidenziarne l?eventuale incongruenza e fornire una lettura del materiale probatorio, scevra da ogni possibilità di dubbio.

 

Questa attività del giudice del gravame doveva trovare riscontro sul piano della motivazione, l?incongruenza e l?illogicità della quale potevano essere rilevate in Cassazione, ai sensi dell?art. 606, lett. e), cod. proc. pen., norma quest?ultima che finiva per essere interpretata estensivamente.

 

In questo senso, è già indicativo l?arresto contenuto in Sez. I, n. 1381 del 16 dicembre 1994, dep. 10 febbraio 1995, Felice, Rv. 201487, secondo cui ?La decisione del giudice di appello, che comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. L'alternatività della spiegazione di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un "iter" logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche. Il supporto motivazionale di una decisione giurisdizionale per essere logico deve essere conforme ai canoni che presiedono alle forme corrette del ragionamento in direzione della dimostrazione della verità. (Nella specie la Corte di Assise di Appello, dopo aver riconosciuto l'esistenza di un plausibile movente, dopo aver considerato che gli imputati avevano trascorso sicuramente con la vittima buona parte del tempo che aveva preceduto la sua uccisione e dopo aver posto in rilievo che i medesimi imputati avevano avuto la possibilità di commettere l'omicidio, con evidente salto logico prospettava, in maniera del tutto generica e disancorata da concreti elementi emersi dal processo, ipotesi alternative in ordine all'omicidio in questione).?

 

Nella prospettiva della presente analisi, è interessante osservare, dall?esame della fattispecie riportata nella massima, il fatto che la Corte giunga all?annullamento con rinvio della sentenza di condanna di secondo grado, ritenendo non sufficiente, come motivazione per ribaltare un verdetto assolutorio, la semplice maggiore plausibilità della tesi alternativa a quella affermata dal primo giudice.

 

Le stesse conclusioni - sia pure in termini generali e senza distinguere il tipo di riforma avvenuto in appello ? sono contenute in una decisione emessa a distanza di pochi mesi; ci si riferisce a Sez. I, n. 8009 del 27 giugno 1995, dep. 18 luglio 1995, Manservisi, Rv. 202280, secondo cui ?Il giudice dell'appello non è tenuto ad una analitica motivazione della decisione quando questa sia di conferma di quella del primo giudice, essendo in proposito sufficiente che nel discorso motivazionale siano richiamati gli argomenti giustificativi della statuizione. Qualora, però, dissenta dal primo giudice, deve indicare le specifiche ragioni dell'invalidazione di quelle che sorreggono la sentenza impugnata?.

 

Dopo le due prese di posizione citate non risultano altri precedenti editi nel periodo immediatamente successivo, a dimostrazione della condivisione generale della tesi espressa.

Il tema risulta di nuovo affrontato nel 2002, ma in questo caso il principio in precedenza elaborato viene utilizzato - nell?ambito di un noto processo, riguardante un personaggio di vertice delle istituzioni, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa - per censurare una sentenza di assoluzione, non convincente sul piano della motivazione, intervenuta dopo una condanna in primo grado; in questo senso, Sez. II, n. 15756 del 12 dicembre 2002, Contrada, dep. il 3 aprile 2003, Rv. 225564, secondo cui ?La decisione del giudice di

appello, che comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente dimostrazione che, sovrapponendosi "in toto" a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. Ne consegue che il giudice di appello, allorché prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti, posti a fondamento di un "iter" logico che conduca, senza affermazioni apodittiche, a soluzioni divergenti da quelle prospettate da altro giudice di merito. (Nella specie, in cui risultava contestato all'imputato il concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., la Corte ha annullato la sentenza del giudice di appello che aveva ipotizzato la configurabilità, a suo carico, del reato di favoreggiamento personale, ma in termini di pura astrazione, sganciata dall'indicazione specifica, anche solo implicita, di concreti elementi probatori a suo supporto)?.

 

E? nel 2003 che interviene la più importante decisione sull?argomento; le Sezioni unite (Sez. Un., n. 45276 del 30 ottobre 2003, dep. il 24 novembre 2003, Andreotti) sono chiamate a pronunciarsi sul caso di un ex presidente del Consiglio dei Ministri, imputato ed assolto in primo grado per essere il mandante di un omicidio e successivamente condannato in appello.

Per la prima volta la Corte, sia pure incidentalmente in motivazione, affronta il tema

dell?inadeguatezza normativa del mezzo di impugnazione in esame, con parole che è opportuno qui di seguito integralmente riportare; evidenzia, infatti, che ?principi costituzionali, norme di diritto internazionale convenzionale ed autorevole dottrina suggeriscono ...di ristrutturare sapientemente il giudizio secondo cadenze e modalità che precludono a quel giudice (che di regola rimane estraneo alla formazione dialettica della prova) di ribaltare il costrutto logico della decisione di proscioglimento dell?imputato, all?esito di una mera rilettura delle carte del processo e di un contraddittorio dibattimentale ex actis?; de iure condendo indica anche un possibile percorso per il futuro legislatore, e cioè costruire il giudizio di appello come ?giudizio di natura esclusivamente rescindente?.

 

De iure condito, i Supremi giudice, consapevoli di non poter incidere sulla struttura normativa dell?appello, si muovono ampliando, di fatto, il potere di sindacato della Cassazione sulla decisione del giudice del gravame, con riferimento esplicito, però, alla sola ipotesi di reformatio in peius di una decisione assolutoria (7).

Due sono i principi tratti dalla sentenza che è opportuno in questa sede richiamare; quello contenuto in Rv. 226093 (?Nell'ipotesi di omesso esame, da parte del giudice, di risultanze probatorie acquisite e decisive, la condanna in secondo grado dell'imputato già prosciolto con formula ampiamente liberatoria nel precedente grado di giudizio non si sottrae al sindacato della Corte di cassazione per lo specifico profilo del vizio di mancanza della motivazione "ex"

art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., purché l'imputato medesimo, per quanto carente di interesse all'appello, abbia comunque prospettato al giudice di tale grado, mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria. In detta evenienza al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di accesso agli atti, ma attraverso il raffronto tra la richiesta di valutazione della prova e il provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad essa risposta, se la prova, in tesi risolutiva, assunta sia effettivamente tale e se quindi la denunciata omissione sia idonea a inficiare la decisione di merito.) e quello contenuto in Rv. 226092 (?Il ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna in appello dell'imputato prosciolto in primo grado con la formula ampiamente liberatoria "per non aver commesso il fatto" può essere proposto anche per violazioni di legge non dedotte, perché non deducibili per carenza di interesse all'impugnazione, in appello.?)

 

L?individuazione dell?ambito dei poteri di controllo della Suprema Corte sulla motivazione del giudice di appello che modifica in peius la statuizione del primo giudice è argomento riaffrontato in un arresto di poco successivo; si ritiene possibile l?esame della sentenza di primo grado per rilevare, dal confronto con quella di grado ulteriore, il vizio di manifesta illogicità; in questi termini, Sez. IV, n. 32970 del 23 giugno 2004, dep. 29 luglio 2004, Santilli,

Rv. 229144 per la quale ? In caso di ricorso per manifesta illogicità della motivazione, il giudice di legittimità può esaminare la sentenza di primo grado al fine di valutare se il giudice di appello abbia tenuto nel debito conto, sia pure per disattenderle, le argomentazioni ivi esposte, in quanto la motivazione del secondo giudice, soprattutto qualora la difformità investa l'affermazione o l'esclusione della responsabilità, deve indicare le specifiche ragioni dell'invalidazione di quelle che sorreggono la sentenza impugnata?.

 

Nel 2005, sono di nuovo le Sezioni Unite a pronunciarsi (Sez. Un. n. 33748 del 12 luglio 2005, dep. il 20 settembre 2005, Mannino), affrontando più aspetti della tematica in discussione (8).

Anche in questo caso per l?imputato - un ex ministro della Repubblica ritenuto colpevole in secondo grado di concorso esterno in associazione mafiosa - vi erano stati verdetti contrapposti nei giudizi di merito, sostituendosi in appello ad un?assoluzione una condanna.

La Corte, in primo luogo, esclude che la previsione normativa che consente l?appello del p.m. possa contrastare con i principi costituzionali di cui all?art. 24 e 111; così, Rv. 231674, secondo cui ?È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 570 cod. proc. pen. ("rectius", art. 593 comma primo), prospettata in riferimento agli artt. 24 comma secondo e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che il P.M. non possa proporre appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado. Infatti, le garanzie assicurate dalle

norme costituzionali, con specifico riguardo ai profili della formazione della prova nel contraddittorio fra le parti e dell'obbligo di valutazione della stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, sono riconosciute ed attuate nel giudizio di impugnazione introdotto dal gravame del P.M.. (In motivazione la Corte ha sottolineato che, in virtù del carattere ampiamente devolutivo del giudizio di appello instaurato sull'impugnazione del P.M., l'imputato ha il diritto di riproporre ogni questione sostanziale o processuale già posta e disattesa in primo grado, nonchè di chiedere con memorie o istanze l'acquisizione di altre e diverse prove favorevoli e decisive, pretermesse dal primo giudice, con la conseguenza che il giudice di appello ha l'obbligo di argomentare al riguardo e, in caso di omissione, l'imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione. La Corte ha infine precisato che il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo alla pronuncia di assoluzione quella di condanna dell'imputato, è tenuto a dimostrare in modo rigoroso l'incompletezza o l'incoerenza della prima).

 

Indica poi con precisione quale sia l?effetto devolutivo di un appello della parte pubblica, anche in funzione di individuare i diritti dell?imputato assolto; in questo senso si v. la massima contenuta in Rv. 231675, secondo cui ?L'appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all'esito del dibattimento, salva l'esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice "ad quem"

gli ampi poteri decisori previsti dall'art. 597 comma secondo lett. b) cod. proc. pen.. Ne consegue che, da un lato, l'imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall'altro, il giudice dell'appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all'onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell'imputato) e si dichiara manifestamente infondata l?eccezione di legittimità costituzionale della norma che consente di appellare contro la decisione assolutoria di primo grado?

 

Infine, delinea la consistenza e tipologia dell?impegno argomentativo richiesto al giudice di appello per poter legittimamente capovolgere un verdetto assolutorio; si v. la massima contenuta in Rv. 231679, ?In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato?

 

E sulla necessità di una motivazione particolarmente pregnante ed approfondita del giudice di

secondo grado, che voglia riformare un?assoluzione, si esprime anche la quasi coeva Sez. VI, n. 6221 del 20 aprile 2005, dep. il 16 febbraio 2006, Aglieri Rv. 233083, secondo cui ?La sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad

elementi di prova diversi o diversamente valutati.?.

 

3. La riforma dell?appello introdotta dalla legge n. 46 del 2006. ? Nel 2006, il legislatore interviene con una legge che modifica in modo profondo l?appellabilità della sentenze di proscioglimento (legge 6 febbraio 2006, n. 46, divenuta nota come ?legge Pecorella?, dal nome del parlamentare proponente).

 

L?iter legislativo era stato non poco tormentato; nella fase di esame del ddl alle camere si era evidenziato, da parte dell?opposizione parlamentare, come dietro le disposizioni in approvazione vi fossero motivazioni soprattutto politiche, piuttosto che la volontà di correggere una possibile stortura delle norme del codice di rito.

 

Un primo testo approvato che escludeva in radice il potere del p.m. di appellare le sentenze di

assoluzione non aveva ottenuto il placet del Presidente della Repubblica che si era rifiutato di promulgarlo, inviando un motivato e duro messaggio alle Camere (9).

 

Il testo era stato poi riapprovato con alcuni correttivi, anche di sostanza.

 

Il perno della riforma, in particolare, è rappresentato dall?art 1, con il quale si riscrive parzialmente l?art. 593 cod. proc. pen.

 

Nel nuovo testo si stabilisce, al primo comma, che imputato e p.m. possono proporre appello contro le sentenze di condanna; nel secondo comma si prevede, invece, che imputato e p.m. possono appellare contro le sentenze di proscioglimento, nelle sole ipotesi di cui all?art. 603, comma 2, se la nuova prova sia da considerarsi decisiva; si aggiunge, poi, nel medesimo capoverso che ?qualora il giudice, in via preliminare, non disponga la rinnovazione dell?istruttoria dibattimentale dichiara con ordinanza l?inammissibilità dell?appello?.

In pratica, non si giunge ad eliminare completamente il potere di appello della parte pubblica; nei confronti delle sentenze assolutorie, lo si ammette in ipotesi, anche statisticamente, molto marginali e cioè quando, dopo la sentenza di primo grado, e prima del decorso del termine per il gravame, siano scoperti elementi di prova tali da giustificare la rinnovazione del dibattimento, ex art. 603 comma 2, cod. proc. pen.

 

Per bilanciare, poi, questo ridotto ambito di appellabilità, il legislatore modifica la norma sul ricorso per cassazione, con riferimento alla mancata assunzione della prova decisiva (art. 606,

comma 1, lett. d), ma soprattutto ampliando i limiti di censurabilità, nel grado di legittimità, della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e).

 

Quest?ultima disposizione, nella versione emendata, sancisce la possibilità di ricorrere avverso le sentenze per ?mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame?.

 

La legge provvede, fra l?altro, anche alla sostituzione del comma 1 dell?art. 533 del codice, all?esito della quale il primo alinea risulta essere del seguente tenore: ?il giudice pronuncia sentenza di condanna se l?imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio?.

L?intervento riformatore fu accolto da una parte della dottrina favorevolmente, anche se non si mancò di rimarcare le non poche confusioni dell?ordito normativo; il risultato comunque considerato positivo era l?evitare che l?imputato potesse essere condannato all?esito di un processo di secondo grado, celebratosi solo sul materiale scritto (10).

Non furono pochi, però, gli autori che rimarcarono come le scelte legislative avessero penalizzato eccessivamente la parte pubblica e si presagì come molto probabile la caducazione della norma con un intervento del giudice delle Leggi (11).

 

4. La sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007; il ripristino del potere di appello pieno del p.m. - A poco meno di un anno di distanza dall?approvazione della legge n. 46 del 2006, la Corte Costituzionale, investita da più ricorsi dei giudici di merito, con sentenza 6 febbraio 2007, n. 26, ha dichiarato l?incostituzionalità dell?art. 1 della legge n. 46 nella parte in cui aveva modificato l?art. 593 cod. proc. pen.

 

La Corte, in particolare, ha ritenuto violato il parametro costituzionale dell?art. 111, comma 2, Cost. che impone la parità fra le parti processuali.

 

Nella motivazione della sentenza, dopo aver premesso che ?le menomazioni del potere di impugnazione del p.m.? potrebbero, comunque, rappresentare una soluzione normativa se ?sorrette da una ragionevole giustificazione nei termini di adeguatezza e proporzionalità? evidenzia come legge in esame crei una ?dissimmetria radicale? fra le parti processuali, in quanto la rimozione del potere di appello del p.m. si presenta ?generalizzata? ed ?unilaterale?. Né l?alterazione del trattamento paritario fra le parti trova nella legge ragioni di adeguatezza e proporzionalità.

 

A sostegno, infatti, della soluzione normativa sperimentata dal legislatore si era evidenziato, nei lavori preparatori, come l?avvenuto proscioglimento in primo grado - rafforzando la presunzione di non colpevolezza ? impedirebbe che l?imputato, già dichiarato innocente, possa

essere considerato colpevole da altro giudice, ?al di là di ogni ragionevole dubbio?, secondo quanto previsto dal comma 1 dell?art. 533 cod. proc. pen, come pure modificato dalla legge n. 46; la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo già risultato innocente avrebbe finito per assumere una connotazione meramente persecutoria, contraria ai principi di uno Stato democratico.

 

Si tratta - secondo i giudici costituzionali - di considerazioni decisamente non condivisibili, essendo sufficiente, a contrario, osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell?imputato, al di là dell?ogni ragionevole dubbio, rappresenti, in ogni caso, la risultante di una valutazione e che la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio sull?opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre sempre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell?istituto dell?appello.

 

In effetti, se il doppio grado di giurisdizione mira a rafforzare un giudizio di certezza, esso non può riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma evidentemente anche quello ? antitetico ? di innocenza.

?In tale ottica ? si aggiunge in termini che meritano di essere integralmente riportati -

l?iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilità dell?imputato, non può qualificarsi in sé persecutoria: essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione penale nel caso concreto e - tramite questa ? l?effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatici?.

 

La Corte esclude, altresì,che le limitazioni all?impugnabilità delle sentenze introdotte dalla legge del 2006 siano conseguenti al dovere di adeguarsi alla normativa sovranazionale; in particolare, nei lavori preparatori erano stati citati l?art. 2 del protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell?Uomo, adottato a Strasburgo il 20 novembre 1984, e l?art. 14, par. 5, del Patto internazionale relativo ai diritti politici e civili adottato a New York il 16 dicembre 1966. Entrambe le norme, invece, nel prevedere la necessità di un giudizio di seconda istanza a seguito di una sentenza di condanna non richiedono affatto che esso sia un giudizio di merito, potendo quest?ultimo anche essere un giudizio di legittimità, come quello di Cassazione, previsto nel nostro sistema positivo ed esperibile contro una sentenza che anche per la prima volta in appello affermi la responsabilità dell?imputato.

Infine, nega possa rappresentare una valida ragione per eliminare il potere di impugnazione la

circostanza che il giudice di appello ha un rapporto solo mediato con le prove; l?ipotizzata distonia del sistema, infatti, sussisterebbe anche in presenza dell?impugnazione di una sentenza di condanna e comunque ?il rimedio ad eventuale deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto in soluzioni che escludono quel difetto e non già in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio nelle rispettive posizioni?.

Conclude evidenziando che, pur non potendosi ritenere la parità delle parti come corrispondente necessariamente ad un eguale distribuzione di poteri e facoltà fra i protagonisti del processo, ?la menomazione recata .. ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell?imputato, eccede i limiti di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale ed unilaterale della menomazione stessa? (12).

 

5. L?orientamento della giurisprudenza successivo alla sentenza della Consulta; la valorizzazione del principio dell? ?oltre ogni ragionevole dubbio? ? Con la declaratoria di incostituzionalità dell?art. 1 della l. n. 46 del 2006 e con il ripristino dello status quo ante, ridiventa onere della giurisprudenza individuare, de iure condito, quali debbano essere le condizioni che possono giustificare il ribaltamento di una sentenza assolutoria.

Nella prima pronuncia edita, successiva alla sentenza della Consulta n. 26 del 2007, la Corte si

limita a ribadire i principi elaborati in passato ed a ritenere, quindi, necessario ed indispensabile un dovere rinforzato di motivazione quando il giudice di appello ritenga di operare una diversa valutazione del materiale probatorio di primo grado; la novità dell?arresto va individuata nella circostanza che la Corte ritiene indispensabile una motivazione capace di confutare gli argomenti del primo giudice anche quando il radicale rovesciamento non riguardi la decisione conclusiva del giudizio, ma una valutazione essenziale nell?economia della motivazione.

Nella fattispecie scrutinata, in particolare, il giudice di primo grado aveva ritenuto inattendibile una chiamata in correità e, di conseguenza, l?aveva considerata non utilizzabile come riscontro ex art. 192 cod. proc. pen.; il giudice di appello aveva dissentito da questa valutazione e ritenuto pienamente utilizzabile come riscontro le dichiarazioni in parola. Era giunto, però, a tale conclusione senza confrontarsi compiutamente con gli argomenti adotti dal primo giudice, circostanza quest?ultima ritenuta meritevole di censura da parte della Corte, ex art. 606 cod. proc. pen.

 

Così, Sez. 5, n. 35762 del 5 maggio 2008, dep. il 18 settembre 2008, Aleksi, Rv. 241169, secondo cui ?In tema di motivazione della sentenza, il principio per cui, nel caso di riforma da parte del giudice di appello di una decisione assolutoria emessa dal primo giudice, il secondo giudice ha l'obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità sul piano

logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, trova applicazione anche in caso di radicale rovesciamento di una valutazione essenziale nell'economia della motivazione, in un processo nel quale siano determinanti i contributi dichiarativi di alcuni soggetti chiamanti in reità o in correità, non essendo sufficiente la manifestazione generica di una differente valutazione ed essendo, per contro, necessario il riferimento a dati fattuali che conducano univocamente al convincimento opposto rispetto a quello del giudice la cui decisione non si condivida?

 

E? nel 2011 che nella giurisprudenza di legittimità emerge una posizione che, pur collegandosi direttamente ai dicta delle Sezioni Unite espressi nel 2003 e nel 2005, appare ancora più netta e radicale.

 

Non ci si limita, infatti, più a richiedere un particolare impegno motivazionale del giudice di appello che voglia ribaltare l?esito della sentenza di primo grado; si qualificano come ?illegittime? le pronunce che dichiarino la colpevolezza in luogo di una precedente assoluzione, nel caso in cui il giudice del gravame si limiti a ritenere maggiormente persuasiva una lettura

del materiale probatorio, formatosi integralmente in primo grado, che porti a conclusioni difformi con l?esito precedente.

 

L? ?illegittimità? in parola può essere rilevata in Cassazione, sotto il profilo del difetto di motivazione, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.

E a questa conclusione si giunge valorizzando il principio, introdotto dalla legge n. 46 del 2006, nel primo alinea del comma 1 dell?art. 533 cod. proc. pen., secondo cui la condanna è possibile solo se l?imputato risulti colpevole oltre ogni ragionevole dubbio.

In questo senso si sono pronunciate due quasi coeve sentenze della VI sezione della Corte; in particolare, Sez. VI, n. 40159 del 3 novembre 2011, dep. il 7 novembre 2011, Galante, Rv. 251066 (secondo cui ?È illegittima la sentenza d'appello che, in riforma di quella assolutoria condanni l'imputato sulla base di una alternativa e non maggiormente persuasiva interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio.?) e Sez. VI, n. 4996 del 26 ottobre 2011, dep. il 9 febbraio 2012, Abbate, Rv. 251782 (per la quale ?E? illegittima la sentenza d'appello che, in riforma di quella assolutoria, condanni l'imputato sulla base di una alternativa, e non maggiormente persuasiva, interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio, in quanto tale inidonea a far cadere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato.?)

Siccome le argomentazioni a sostegno delle due decisioni sono quasi sovrapponibili, è utile

estrapolarne da una delle due (in particolare quella n. 40159) lo stralcio che affronta l?argomento de quo: ?è opportuno preliminarmente rilevare, in via generale, che il principio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", formalmente introdotto nel nostro ordinamento dalla L. n. 46 del 2006, pur se non più accompagnato dalla regola dell'inappellabilità delle sentenze assolutorie, espunta dalla sentenza n. 36 del 2007 della Corte costituzionale, presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza. Non basta, insomma, per la riforma caducatrice di un'assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece, come detto, una forza persuasiva superiore, tale da far cadere "ogni ragionevole dubbio", in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza.?

 

A distanza di qualche mese altra Sezione della Corte si è allineata al nuovo orientamento, anche in questo caso fondando l?esito decisorio sul richiamo al comma 1 dell?art. 533 cod. proc. pen.; ci si riferisce a Sez. II, n. 27018 del 27 marzo 2012, dep. 10 luglio 2012, Urciuoli Rv. 253407, secondo cui ?È illegittima la sentenza d'appello che, in riforma di quella

assolutoria, affermi la responsabilità dell'imputato sulla base di una interpretazione alternativa, ma non maggiormente persuasiva, del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio.?

 

Da questo momento in poi sono numerosi gli arresti che ribadiscono la stessa linea interpretativa, utilizzando sempre, con sfumature lievemente diverse, il medesimo supporto di argomenti; in questo senso, Sez. VI, n. 46847 del 10 luglio 2012, dep. 4 dicembre 2012 , Aimone, Rv. 253718 (secondo cui ?Nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio?) e Sez. VI, n. 1266 del 10 ottobre 2012, dep. 10 gennaio 2013, Andrini, Rv. 254024 (secondo cui ?Nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio?), Sez. VI, n. 49755 del 21 novembre 2012, dep. 20 dicembre 2012, Capozzi, Rv. 253909 (secondo cui ?È illegittima la sentenza d'appello che, in riforma di quella assolutoria condanni l'imputato sulla base di una alternativa interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore della motivazione, tale da far cadere "ogni ragionevole dubbio").

Alle stesse conclusioni giunge anche Sez. VI, n. 1514 del 19 dicembre 2012, dep. 11 gennaio 2013, Crispi, Rv. 253940 con riferimento al caso in cui il giudice di appello riformi una sentenza assolutoria ai soli effetti civili; (la massima tratta dall?ufficio così si esprime: ?E? illegittima la sentenza d'appello che in riforma di quella assolutoria affermi la responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini civili, sulla base di una alternativa e non maggiormente persuasiva interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio?).

Da ultimo, è opportuno segnalare un arresto sempre della medesima sezione della Corte,

Sez. VI, n. 8705 del 24 gennaio 2013, dep. 21 febbraio 2013 , Farre, Rv. 254113

(secondo cui ?Nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio?) che nella motivazione, a sostegno della conclusione raggiunta, oltre che l?art. 533 cod. proc. pen., richiama anche una

decisione della Corte EDU di cui di seguito si dirà.

 

Lo stralcio della motivazione sul punto è opportuno riportare qui di seguito integralmente: ?Del resto, anche i più recenti orientamenti della Corte EDU (tra cui si evidenzia la sentenza 5.7.2011. Dan c. Moldavia, in particolare i paragrafi 32 e 33 con l?affermazione che quando la decisione di prima condanna in grado di appello si fonda sul diverso apprezzamento di una prova orale determinante per la decisione, questa deve ?in linea di massima? prima essere riassunta davanti al medesimo giudice d?appello) concorrono (e con un?efficacia che va oggi valutata anche alla luce della sentenza della nostra Corte Costituzionale n. 113/2001 sull?art. 630 c.p.p.) ad una conclusione che vede la prima condanna in appello, a materiale probatorio invariato, come soluzione strutturale legittima, quindi possibile e fisiologica, ma caratterizzata da indefettibile rigore ed attenzione nell?adempimento degli obblighi e nell?osservanza delle regole anche <di sistema> del processo?.

 

6. La sentenza della Corte Edu nel caso Dan c/ Moldavia.? Della possibilità e dei limiti della riformabilità in peius di una sentenza assolutoria di primo grado in appello si è anche occupata, come già accennato, la Corte Europea dei diritti dell?uomo, III sezione con la sentenza del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia.

Con la ricordata pronuncia, infatti, i giudici di Strasburgo hanno deciso il ricorso proposto

contro la Repubblica di Moldavia da tal Mihail DAN, il quale aveva rappresentato che il procedimento penale svoltosi nei suoi confronti, per l'accusa di aver preteso, quale preside di una scuola, una somma di denaro da uno studente per acconsentire al trasferimento di quest'ultimo presso l'istituto da lui diretto, non era stato equo ai sensi dell'art. 6, par. 1, della Convenzione.

Con sentenza 24 gennaio 2006, il tribunale distrettuale di Buiucani aveva, infatti, assolto il DAN ritenendo inattendibile la testimonianza del denunciante secondo cui il preside gli aveva chiesto una tangente, osservando che sia il denunciante che gli altri quattro testimoni dell'accusa, tutti agenti di polizia, avevano fornito versioni diverse dell'incontro tra il denunciante e il DAN e, in particolare, della modalità di trasmissione della tangente. Con sentenza 23 marzo 2006, la Corte di appello di Chisinau aveva accolto il ricorso della Procura e ribaltato la sentenza assolutoria, senza udire nuovamente i testimoni, ma semplicemente dando una diversa valutazione alle deposizioni rese dagli stessi al tribunale, ritenendole tutte attendibili e non riscontrando importanti

contraddizioni tra di loro.

 

La Corte ha ritenuto, nel caso in esame, integrata la violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione proprio nella parte in cui il processo di appello aveva condotto ad un ribaltamento della condanna, in assenza di qualsivoglia attività istruttoria e quindi sulla scorta soltanto dei soli atti assunti in primo grado.

 

E? opportuno qui riportare lo stralcio della motivazione della sentenza citata, nella parte di interesse:

?Tornando ai fatti del presente caso, la Corte osserva che le principali prove contro il ricorrente

erano le dichiarazioni testimoniali secondo cui egli aveva sollecitato una tangente e l?aveva ricevuta in un parco. Il resto delle prove erano prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente.... Pertanto le testimonianze e il peso dato a esse era di grande importanza per la determinazione del caso. Il Tribunale di primo grado ha assolto il ricorrente perché esso non ha creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente. Nel riesaminare il caso, la Corte d?Appello ha dissentito dal Tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell?accusa e ha condannato il ricorrente. Nel far ciò, la Corte d?Appello non ha udito nuovamente i testimoni ma si è semplicemente basata sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti. Visto quanto è in gioco per il ricorrente, la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d?Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena ? e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del Tribunale di primo grado ? avrebbero potuto, in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell?accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l?innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell?attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate. Naturalmente, vi sono casi in cui è

impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perché, per esempio, egli o ella è deceduto/a, o per proteggere il diritto del testimone di non auto-accusarsi (vedi Craxi c. Italia (n. 1), n. 34896/97, § 86, 5 dicembre 2002). Tuttavia, non sembra che le cose stessero così in questo caso?

 

Dall?esame del passo sopra riportato, sembrano potersi ricavare i seguenti principi:

- non contrasta in linea astratta con i principi della Convenzione europea dei diritti dell?Uomo una condanna emessa dal giudice di appello, in riforma di una pronuncia assolutoria;

- l?affermazione di responsabilità in sede di gravame che dovesse conseguire ad una diversa valutazione di attendibilità delle prove orali ritenute decisive richiede, però, per essere rispettosa dell?art. 6 CEDU, l?esame diretto dei testimoni da parte del giudice dell?appello.

 

7. L?applicabilità dei principi contenuti nella sentenza Dan c. Moldavia nel diritto interno . - I principi affermati dalla Corte di Strasburgo a cui poco sopra si è fatto riferimento non possono essere considerati, alla stregua di una qualsivoglia affermazione giurisprudenziale, come un mero precedente autorevole ma non vincolante.

Essi, in virtù dell?art. 117 Cost., sono direttamente applicabili nel nostro diritto interno e considerati sovraordinati rispetto alle norme di legge ordinaria.

Il giudice nazionale rispetto ad essi può o procedere ad un?interpretazione conforme alla convenzione delle norme ordinarie oppure investire la Corte costituzionale perché valuti la compatibilità delle disposizioni nazionali, denunciando la violazione della norma costituzionale

da ultimo citata.

 

Che questo sia il rapporto fra norme della CEDU o sentenze della Corte EDU ed il diritto nazionale lo si evince da ultimo da Corte Cost. 7 aprile 2001, n. 113 che, nel dichiarare l?illegittimità costituzionale dell?art. 630 cod. proc. pen. nella parte in cui non concede al condannato il cui processo sia stato ritenuto irrispettoso delle norme CEDU il diritto alla revisione, ha espressamente affermato, per quanto qui interessa che ?A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrino, quali <<norme interposte>>, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli <<obblighi internazionali>> (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). Prospettiva nella quale, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale

verifica dia esito negativo - non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante - egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione - la quale si colloca pur sempre a un livello sub- costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato.?.

Si è gia poco sopra ricordato come la sentenza n. 8705/13 abbia richiamato a sostegno della interpretazione patrocinata in tema di limiti alla reformatio in peius i principi espressi dalla sentenza Dan c/ Moldavia citata.

 

Nella giurisprudenza della Corte si sta, da ultimo, formando un orientamento su quali possono essere le ?ricadute? dei principi espressi nella sentenza nel diritto nazionale.

In particolare, sotto un primo aspetto la Cassazione è stata chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell?art. 603 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l?obbligatorietà della rinnovazione parziale del dibattimento, nel caso in cui si ritenga di dover riformare in peius una sentenza assolutoria.

 

Due sono le pronunce sull?argomento.

 

La prima riguarda una vicenda di rilevante notorietà anche mediatica; quella concernente il processo che ha affrontato i profili di responsabilità penale di appartenenti alla polizia di Stato

per i disordini conseguenti il G8 del 2001 di Genova, processo che in primo grado aveva visto assolti gran parte degli appartenenti alla polizia, condannati poi in appello

 

La Corte (Sez. V, n. 38085 del 5 luglio 2012, dep. il 2 ottobre 2012, Luperi Rv. 253541) ha dichiarato manifestamente infondata l?eccezione di legittimità costituzionale per carenza del requisito di rilevanza; nell?ipotesi in esame non vi era stata, infatti, una diversa valutazione dell?attendibilità dei testimoni.

 

Incidentalmente, quindi, ha confermato la piena applicabilità nel diritto interno dei principi espressi dalla Corte europea.

 

La massima tratta dall?Ufficio sul punto è del seguente tenore:?È manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 603 cod. proc. pen. per contrasto all'art. 117 della Costituzione e all'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di Appello intenda riformare "in peius" una sentenza di assoluzione dell'imputato. (In motivazione, la Corte ha rilevato che l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria soltanto in presenza di due presupposti, assenti nell'ipotesi in trattazione, quali la decisività della prova testimoniale e la necessità di una

rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni).?

Per comprendere il ragionamento seguito dalla Corte è utile riportare qui di seguito anche lo stralcio della motivazione in cui si spiegano le ragioni per le quali, nell?ipotesi specifica, sia stata ritenuta non ?illegittima? la riforma in peius della sentenza di primo grado:

?La Corte Europea, pertanto, ancora la violazione, con riferimento al giudizio di appello, dell'art. 6, par. 1, CEDU, al duplice requisito della decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di essa da parte della Corte di appello, in termini di attendibilità, in assenza di nuovo esame dei testimoni dell'accusa per essere la diversa valutazione di attendibilità stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base della lettura dei verbali delle dichiarazioni da essi rese. Nessuno dei due requisiti ricorre nella specie.

Non il primo, dal momento che nella vicenda processuale all'esame di questa Corte, avente ad oggetto i fatti accaduti la notte del 21 luglio 2001 presso la scuola "Diaz" e la scuola "Pascoli" di Genova, il compendio probatorio a carico degli imputati, che supporta la sentenza di condanna di secondo grado, è costituito non solo da prove testimoniali, ma anche da prove documentali, audio e video, dalla documentazione sanitaria, dalla documentazione del traffico telefonico, dalle registrazioni di conversazioni telefoniche, oltre che dalle dichiarazioni rese contra se dagli stessi imputati e quelle, sempre provenienti dagli imputati, giudicate in evidente contrasto con la documentazione audiovisiva acquisita agli atti. Non il secondo, poiché, nel pervenire alla condanna degli imputati assolti in primo grado, la Corte genovese non ha operato una diversa valutazione delle varie testimonianze, pervenendo ad un differente giudizio di attendibilità dei testi di accusa, ma ha invece tratto dalle dichiarazioni di alcuni testimoni (...) conseguenze in termini di responsabilità, con riferimento alle diverse imputazioni elevate a carico di alcuni degli odierni ricorrenti, suda base della interpretazione delle dichiarazioni testimoniali che non è andata ad involgere quel giudizio di valore delle stesse dichiarazioni ritenuto precluso dalla Corte Europea ai giudici di appello ove con esso intendano ribaltare la sentenza assolutoria di primo grado, a ciò potendo invece pervenire solo in seguito all'esame diretto delle medesime fonti testimoniali.

Non può pertanto che concludersi nel senso della inapplicabilità della regola di giudizio, indicata dalla Corte Europea di Strasburgo nel caso Dan c/ Moldavia, ai fatti oggetto del presente giudizio, con conseguente irrilevanza della dedotta questione di legittimità costituzionale.?

 

Con altra sentenza di poco successiva, la Corte ha di nuovo escluso profili di illegittimità costituzionale dell?art. 603 c.p.p. per eventuale contrasto con l?art. 6 CEDU.

In questo caso (Sez. II, n. 46065 dell?8 novembre 2012, dep. il 27 novembre 2012, Consagra, in corso di massimazione) la Corte ha respinto l?eccezione di legittimità costituzionale ritenendo che la corretta interpretazione dell?art. 603 cod. proc. pen. sia già assolutamente in linea con le indicazioni provenienti dalla Corte sovranazionale.

Afferma, infatti, la Corte ?che non esiste nell'ordinamento processuale italiano alcuna norma che vieti di rinnovare il dibattimento di appello e che, quindi, imponga al giudice di appello di

decidere sulla sola base degli atti assunti nel giudizio di primo grado essendogli consentita la sola rilettura di quegli atti. Al contrario, l'art. 603 c.p.p. depone in modo diametralmente opposto a quanto sostenuto dal ricorrente, imponendo al giudice anche di motivare sulla reiezione di riassunzione delle prove: il che significa che non sussiste alcun ostacolo di diritto (ossia di carenza strutturale dell'ordinamento processuale) ma "l'ostacolo" è solo di fatto e consiste nella decisione con la quale il giudice di appello ritenga di non rinnovare il dibattimento, che, però, ove sta ritenuta affetta da vizio motivazionale, è censurabile in sede di legittimità con conseguente annullamento, sul punto, della sentenza. In altri termini, l'attuale art. 603 c.p.p., letto ed interpretato anche alla stregua dei citati principi di diritto enunciati dalle SS.UU. con la sentenza n. 33748/2005, consente la più ampia rinnovazione del dibattimento sicché, il giudice di appello, sia d'ufficio, sia ove sollecitato dall'imputato, ben può provvedere alla riassunzione delle prove già assunte nel giudizio di primo grado. È importante, a tal proposito, rilevare come il principio per cui la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado - stabilito nell'art. 603 c.p.p., comma 1 - sia subordinata ad una duplice circostanza (ossia che: a) i dati probatori già acquisiti siano incerti; b) l'incombente richiesto sia decisivo e, quindi, idoneo ad eliminare le eventuali incertezze ovvero ad inficiare ogni altra risultanza) è perfettamente coincidente e sovrapponibile con il principio di diritto enunciato dalla Corte EDU secondo il quale il giudice di appello non può decidere sulla base delle testimonianze assunte nel giudizio di primo grado limitandosi ad una mera rivalutazione - in termini di attendibilità - delle medesime (in senso peggiorativo per l'imputato) quando siano decisive.?

 

Sotto un diverso profilo, i Supremi giudici hanno anche indicato in quali casi il principio espresso dalla sentenza della Corte EDU sia già immediatamente applicabile nel diritto processuale nazionale.

Hanno affermato infatti che ?Il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato - in base all?art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell?uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia ? alla rinnovazione dell?istruzione dibattimentale solo quando intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile.? (massima ancora provvisoria, tratta da Sez. VI, n. 16566 del 26 febbraio 2013, dep. il 12 aprile 2013, Caboni, decisione segnalata nel ?servizio novità?)

 

Rel. n. 18/13 Roma, 23 aprile 2013

Redattore: Raffaele Cantone

Il vice direttore Giorgio Fidelbo

 

 

Note:

1. In questi termini SPANGHER, voce Doppio grado di giurisdizione (principio del), Diritto processuale penale, in Enc giur treccani, vol. XII, 1989, 1. A conclusioni analoghe e nel senso che il principio sarebbe di elaborazione squisitamente dottrinale, si v. SERGES, Il principio del <doppio grado di giurisdizione>nel sistema costituzionale italiano, Milano 1993, 14.

2. Sulla natura del giudizio di appello come un giudizio tipicamente di controllo, si v. PERONI, Giusto processo e doppio grado di giurisdizione nel merito, in Riv. dir. proc., 2001, 79.

3. Nel senso che il processo di appello ha natura e carattere meramente cartolare si rinvia a CIANI, Il doppio grado di giudizio: ambito e limiti, in Cass. pen. 2007, 1389

4. Così, FERRUA, Studi sul processo penale, vol. II, Torino, 151 e ss.

5. A questa conclusione, PADOVANI, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell?imputato, appello del p.m., principio del contraddittorio, in Cass. pen. 2003, 4032, secondo cui la norma costituzionale che renderebbe illegittimo l?appello è quella del comma 4 dell?art. 111 Cost.; in senso, però, parzialmente diverso LOZZI, Reformatio in peius del giudice di appello e cognitio facti ex actis della Corte di Cassazione, in Riv. it. dir e proc. pen. 2004, 639 il quale, pur non ritenendo di condividere l?affermazione dell?illegittimità costituzione dell?appello del p.m., concorda sull?affermazione secondo cui il giudizio di appello, così come strutturato e cioè come giudizio allo stato degli atti, vanifica il contraddittorio nella formazione della prova e, quindi, appare in contrasto con l?art. 111, comma 4, Cost. Una consistente parte della dottrina si è nel corso degli anni espressa in senso critico rispetto alla previsione di un potere del p.m. di impugnazione della sentenza di primo grado che conducesse alla possibilità di una totale reformatio in peius; a queste conclusioni, senza alcuna pretesa di esaustività, COPPI, No all?appello del p.m. dopo la sentenza di assoluzione, in Il giusto processo, 2003, 30; STELLA, Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, in Cass. pen. 2004, 756.

6. Sulle prospettiva di riforma avanzata nel corso degli anni si v. CIANI, Il doppio grado di giudizio,cit., 1397.

7. Per un esame maggiormente approfondito, anche in una prospettiva critica, del ragionamento prospettato nella decisione si v. LOZZI, Reformatio in peius del giudice di appello, cit., 638 e ss

8. Nel senso che la sentenza si pone in linea con la decisione del 2003, adottata nel processo Andreotti, e con essa prosegue ?la lenta ma inesorabile erosione della regola di evidenza testuale del vizio di motivazione, che il legislatore ha introdotto nell?art. 606 cod. proc. pen.?, si v. LEO, Il giudizio di appello contro le sentenze assolutorie di primo grado, in Corr. merito, 2006, 119.

9. Nel messaggio si denunciava la palese incostituzionalità delle norme, alla cui base vi era fra l?altro un carattere disorganico e asistematico della riforma; si evidenziava, ancora, come l?inibire al p.m. la possibilità di impugnare nel merito il proscioglimento dell?imputato finisse per alterare i rapporti tra le parti processuali, introducendo una situazione disparità che supera quella compatibile con la diversità di funzioni svolte dalle parti nel processo.

10. In senso favorevole, pur senza mancare di criticare sotto più profili l?intervento legislativo, FERRUA, Riforma disorganica: era meglio rinviare. Ma non avremo il terzo giudizio di merito, in Dir. e giust. 2006, 9,78; si v. pure GUALTIERI, Il secondo grado di giudizio: ambito e limiti, in Cass. pen. 2007, 1813 che, pur formulando un giudizio complessivamente favorevole, evidenzia come il risultato sia ?stato conseguito attraverso un ordito normativo poco lineare ed in molte parti contraddittorio, che rischia di vanificare almeno in parte la filosofia di fondo della legge.

11. Critico rispetto alle scelte del legislatore, CERESA-GASTALDO, I limiti di appellabilità delle sentenze di proscioglimento: discutibili giustificazioni e gravi problemi di costituzionalità, in Cass. pen. 2007, 827; si v. pure CIANI, Il doppio grado di giudizio, cit., 1401.

12. Per un esame maggiormente approfondito delle motivazioni a sostegno della declaratoria di incostituzionalità, si rinvia a CERESA-GASTALDO, Non è costituzionalmente tollerabile la menomazione del potere di appello del pubblico ministero, in Cass. pen. 2007, 1894; si veda, altresì, GREVI, Appello del pubblico ministero e obbligatorietà dell?azione penale,ivi, 1414.